La leggenda di Ulisse e Polifemo

Matita su carta - Greco Orazio 2000

OMERO - ODISSEA IX


Navigammo oltre, da lì col cuore angosciato, e arrivammo alla terra dei Ciclopi violenti e privi di leggi, che fidando negli dei immortali con le mani non piantano piante, né arano: ma tutto spunta senza seme né aratro, il grano, l'orzo, le viti che producono vino di ottimi grappoli, e la pioggia di Zeus glielo fa crescere. Costoro non hanno assemblee di consiglio, né leggi ma abitano le cime di alte montagne in cave spelonche, e ciascuno comanda sui figli e le mogli, incuranti gli uni degli altri. Fuori dal porto s'allunga un 'isola, plana, non troppo prossima alla terra dei Ciclopi o distante, boscosa: ci vi sono innumerevoli capre selvatiche. Nessun passaggio di uomini le tiene lontane e non la percorrono i cacciatori che nella foresta andando per le cime del monti, dolori sopportano. Non è coperta da greggi o da campi di biade, ma è tutto il tempo incolta, inarata, senza uomini e nutre capre belanti. I Ciclopi non hanno navi con le guance di minio, non vi sono carpentieri tra essi, che lavorino a navi ben costruite, in grado di fare ogni cosa toccando luoghi abitati così come gli uomini vanno spesso con le navi sul mare gli uni dagli altri. Gli avrebbero coltivato l'isola ben costruita, costoro. Non è, infatti cattiva e darebbe ogni frutto a suo tempo: vi sane roridi, morbidi prati vicino alle rive del mare canuto e vi attecchirebbero viti perenni vi è terra plana, da arare, e mieterebbero sempre alta messe a suo tempo, perché il suolo sotto è ben grasso. C'é un porto con ottimi approdi dove non occorre la gomena, né gettare le ancore né legare gli ormeggi: ma, approdati si può rimanere finché l'animo spinga i naviganti a salpare e soffino i venti.In capo al porto scorre limpida acqua: una fonte, dentro una grotta. Intorno crescono pioppi: arrivammo in quel luogo, e un dio ci guidava nella notte buia, senza svelarsi alla vista.Intorno alle navi c'era nebbia profonda, la luna non luceva dal cielo, ma era impigliata tra nubi. Così nessuno con gli occhi scorse quell'isola e neppure vedemmo rotolare sul lido le lunghe onde, finché le navi ben costruite approdarono. Alle navi approdate togliemmo tutte le vele, noi stessi sbarcammo sulla riva del mare. E lì, immersi nel sonno, aspettammo la chiara Aurora.

Quando mattutina apparve Aurora dalle rosee dita, meravigliati facemmo il giro dell'isola. Le ninfe, figlie di Zeus egìoco, eccitarono le capre montane, perché i compagni avessero il pasto: subito dalle navi prendemmo gli archi ricurvi e le aste col becco lungo, e tiravamo, in tre squadre divisi: subito il dio ci diede una caccia abbondante. Mi seguivano dodici navi e toccarono nove capre a ciascuna: solo a me ne scelsero dieci. Così tutto il giorno sedemmo, fine al tramonto, consumando carni abbondanti e dolce vino: il rosso vino sulle navi non era finito, ma ve n 'era: nelle anfore ciascuno ne aveva versato molto, quando prendemmo la città sacra dei Ciconi.. Volgevamo lo sguardo alla terra del vicini Ciclopi, al fumo, alla voce loro, delle pecore e delle capre. Appena il sole caló e sopraggiunse la tenebra, ci sdraiammo sulla riva del mare. Quando mattutina apparve Aurora dalle rosee dita, allora fatto un consiglio parlai in mezzo a tutti: "Voialtri ora aspettate, miei fedeli compagni mentre io con la mia nave e i miei compagni vado a vedere che uomini sono costoro, se prepotenti e selvaggi e non giusti oppure ospitali e che non temono nella mente gli dei". Detto così salii sulla nave, comandai ai compagni di imbarcarsi anche loro e di sciogliere a poppa le gomene. Subito essi salirono e presero posto agli scalmi e sedendo in fila battevano l'acqua canuta coi remi. Quando arrivammo in quel luogo, che era vicino, scorgemmo sull'orlo, accosto al mare, un'altra spelonca coperta di alloro: molte greggi, pecore e capre, di notte vi stavano; un alto recinto si ergeva all'intorno con massi confitti in terra, con lunghi tronchi di pino e di quercia d'alte fronde. Vi dormiva un uomo immenso, che pasceva da solo le greggi lontano, non stava con gli altri, ma viveva in disparte, da empio. Ed era un mostro immenso, non somigliava ad un uomo che mangia pane, ma alla cima selvosa di altissimi monti che appare isolata dalle altre. Allora agli altri fedeli compagni ordinai di restare presso la nave e di farle la guardia, mentre io, scelti i dodici compagni migliori mi avviai. Avevo un otre di capra, pieno del nero vino, dolce, che mi diede Marone figlio di Euante, sacerdote di Apollo, che era protettore di Ismaro, perché, riverenti col figlio e la moglie lo risparmiammo: abitava, infatti, nel folto bosco di Febo Apollo. Splendidi doni costui mi offrì: sette talenti di oro lavorato mi diede, mi diede un cratere tutto d'argento e del vino, che egli versò nelle anfore, dodici in tutto, dolce e puro, bevanda divina. Non era noto a nessuno dei servi e delle ancelle di casa, ma solo a lui a sua moglie e ad una dispensiera. Quando bevevano questo rosso vino di miele, ne versava una tazza piena su venti misure di acqua: dal cratere si spandeva un dolce profumo, divino, Allora non avresti gradito starne lontano. una grande otre di questo vino portavo, e cibi dentro un canestro: perché subito il mio animo altero pensò che avremmo trovato un uomo con una gran forza, selvaggio e ignaro di giusti pensieri e di leggi. Rapidamente arrivammo alla grotta e non lo trovammo dentro: pasceva le pingui greggi al pascolo. Entrati nella spelonca guardammo meravigliati ogni cosa: erano carichi di formaggi i graticci erano stipati i recinti di agnelli e capretti: ciascun gruppo era chiuso a parte, da un lato i più vecchi, da uno i mezzani, da un altro i lattanti; traboccavano tutti di siero i vasi ben lavorati, secchi e mastelli nei quali mungeva. Allora i compagni mi chiesero di prendere anzitutto il formaggio e andar via, e poi cacciati sveltamente I capretti e gli agnelli dal recinti sulla nave veloce, di navigare sull'acqua salata: - ma io non volli ascoltare - e sarebbe state assai meglio - per poterlo vedere, e vedere se mi avrebbe ospitato. Ma con i compagni non sarebbe state gentile, una volta comparso. Acceso il fuoco, bruciammo offerte e, preso del cacio, mangiammo noi pure: lo aspettammo seduti lì dentro, finché arrivò con la mandria. Portava un carico greve di legna secca per servirsene durante la cena. Gettandolo nella caverna produsse un rimbombo: noi atterriti corremmo nel fondo dell'antro. poi egli spinse nella vasta spelonca le pingui bestie, tutti i capi che egli mungeva: fuori lasciò quelli maschi, arieti e caproni all'interno dell'alto steccato. Poi sollevandolo in alto, mise come porta un gran masso pesante: dalla soglia non l'avrebbero smosso ventidue solidi carri con quattro ruote. Una pietra così smisurata mise all'ingresso. Sedutosi munse le pecore e le capri belanti, tutto in modo giusto, e sotto ogni bestia spinse un lattante. Subito, fatto cagliare metà del candido latte, lo raccolse e depose in canestri intrecciati, invece metà lo mise nei vasi perché lo potesse prendere e bere e gli servisse da cena. Dopoché sveltamente finì il suo lavoro, ecco che accese il fuoco e ci scorsg, ci chiese:"Stranieri chi siete? Da dove venite per liquide vie? Per affari o alla ventura vagate sul mare, come i predoni che vagano rischiando la vita, portando danno agli stranieri?" Disse così e a noi si spezzò il caro cuore, atterriti dalla voce profonda e da lui, dal mostro. Ma anche così rispondendo con parole gli dissi: "Siamo Achei di ritorno da Troia! deviati da venti diversi sul grande abisso del mare, bramosi di giungere a casa, altre rotte e altre tappe abbiamo percorso: ha voluto disporre così certo Zeus. Ci vantiamo d'essere gente dell'Aride Agamennone, la cui fama sotto il cielo è grandissima ora: così grande città, infatti ha distrutto e molte genti ha annientato. Noi qui venuti, ci gettiamo alle tue ginocchia, semmai ci ospitassi o ci dessi anche un diverso regalo, quale é norma tra gli ospiti. 0 potente, onora gli dei: siamo tuoi supplici. Vendicatore di supplici e ospiti é Zeus, il dio ospitale che scorta i venerandi stranieri". Dissi così, lui subito mi rispose con cuore spietato: "Sei sciocco o straniero o vieni da molto lontano, tu che mi inviti a temere o a schivare gli dei. Ma i Ciclopi non curano Zeus egìoco o gli dei beati perché siamo molto più forti. Per schivare l'ira di Zeus non risparmierei né te né i compagni, se l'animo non me lo ordina. Ma dimmi dove hai fermato, venendo, la nave ben costruita, se in fonda o in luogo vicino, perché io lo sappia". Disse cosi per provarmi: ma non m' ingannò, ne so tante. E di nuovo gli dissi con parole ingannevoli: "La nave me l' ha fracassata Posidone che scuote la terra, gettandola contro gli scogli, ai confini del vostro paese, spingendola su un promontorio: il vento la portava dal largo. Io però, con costoro, ho evitato la ripida morte". Dissi così, ed egli non mi rispose, con cuore spietato, ma d'un balzo allungò sui compagni le mani, ne afferrò due a un tempo e li sbatté come cuccioli a terra: sprizzò a terra il cervello, e bagnò il suolo. Li squartò membro a membro e apprestò la sua cena: mangiava come un leone cresciuto sui monti, niente lasciava, interiora, carni e ossa con il midollo. Noi piangemmo alzammo a Zeus le mani vedendo l'atroce misfatto: eravamo impotenti. Quando il Ciclope si fu riempito il gran ventre, divorando la carne umana e bevendoci latte puro, giacque nell'antro, distese in mezzo alle greggi. Io nel cuore magnanimo pensai d'accostarmi e, tratta l'aguzza spada lungo la coscia, di colpirlo al petto, dove i precordi reggono il fegato, cercando a tastoni: ma mi trattenne un altro pensiero. Infatti saremmo finiti lì anche noi alla ripida morte, benché con le mani non avremmo potuto spostare dall'alto ingresso la pesante pietra messa da lui. E così, sospirando, aspettammo la chiara aurora. Quando mattutina apparve aurora dalle rosee dita, allora egli accese il fuoco e munse le belle greggi, tutto in mode giusto, e sotto ogni bestia spinse un lattante.

Dopoché sveltamente finì il suo lavoro, afferrati ancora due uomini apprestò il suo pasto. Appena finì di mangiare, cacciò le pingui greggi dall'antro, dopo aver tolto facilmente il gran masso. Poi però lo rimise, quasi mettesse ad una faretra il coperchio. Con un gran fischio volse al monte le pingui greggi il Ciclope: io invece restai a covare piani funesti, semmai potessi punirlo e Atena me ne desse il vanto. E il piano migliore mi parve nell'animo questo: accanto a un recinto il Ciclope teneva un gran tronco verde d'ulivo: l'aveva tagliato per portarlo con sé appena secco. C'era parso, guardandolo, grande quanto l'albero d'una nave con venti remi, larga da carico, che varca il grande abisso: misurava, guardandolo, tanto in lunghezza e in grossezza. Accostatomi ne tagliai per due braccia e le porsi ai compagni: gli ordinai di sgrossarlo. Ed essi lo fecero liscio. Io aguzzai la sua punta, lì accanto: poi la presi e indurii nel fuoco avvampante. Lo riposi per bene, nascondendolo sotto il letame che alto giaceva nell'antro in gran quantità: agli altri ordinai di decidere a sorte chi avrebbe ardito tenere il palo con me e pestarlo nell'occhio, quando l'avesse raggiunto il dolce sonno. Uscirono a sorte quei quattro che io stesso avrei scelto, ed io con essi fui quinto. A sera tornò, guidando le gregge villose. Subito spinse nella vasta spelonca le pingui bestie, tutte, senza lasciarne nessuna fuori dell'alto steccato, o perché pensava qualcosa o perché un dio così l'ispirò. Poi, sollevatolo in alto mise come porta il gran masso. Sedutosi, munse le pecore e le capre belanti, tutto in modo giusto, e sotto ogni bestia spinse un lattante. Dopochè sveltamente finì il suo lavoro, afferrati ancora due uomini apprestò la sua cena. Allora io standogli accanto dissi al Ciclope tenendo con le mani una ciotola di nero:"su, bevi il vino, Ciclope, dopo aver mangiato la carne umana, perché tu sappia che bevanda è questa che alla nostra nave serbava. Te lo avevo portato in offerta, se mai impietosito mi mandassi a casa. Ma tu sei insopportabilmente furioso. Sciagurato, chi altro dei molti uomini potrebbe venire in futuro da te perché non agisci in modo giusto?" Dissi così, lui lo prese e lo tracannò: gioì terribilmente a bere la dolce bevanda e me ne chiese ancora dell'altro: "dammene ancora, da bravo, e dimmi il tuo nome, ora subito, che ti do un dono ospitale di cui rallegrarti. Certo la terra che dona le biade produce ai Ciclopi vino di ottimi grappoli, e la pioggia di Zeus glielo fa crescere. Ma questo e una goccia di ambrosia e di nettare!" Disse così, ed io di nuovo gli porsi il vino scuro. Gliene diedi tre volte, tre volte lo tracannò stoltamente. Ma quando il vino raggiunse il Ciclope ai precordi, allora gli parlai con dolci parole:"Ciclope, mi chiedi il nome famoso, ed io ti dirò: tu dammi, come hai promesso, il dono ospitale. Nessuno è il mio nome: Nessuno mi chiamano mia madre e mio padre e tutti gli altri compagni". Dissi così, lui subito mi rispose con cuore spietato: "per ultimo io mangerò Nessuno, dopo i compagni, gli altri prima: per te sarà questo il dono ospitale". Disse, e arrovesciatosi cadde supino, e poi giacque piegando il grosso collo: il sonno, che tutto doma, lo colse; dalla strozza gli uscì fuori vino e pezzi di carne umana; ruttava ubriaco. E allora io spinsi sotto la gran cenere il palo finché si scaldò: a tutti i compagni feci coraggio, perché nessuno si ritraesse atterrito. E appena il palo d'ulivo stava per avvampare nel fuoco benché fosse verde era terribilmente rovente, allora lo trassi dal fuoco. I compagni stavano intorno: un dio ci ispirò gran coraggio. Essi, afferrato il palo d'ulivo, aguzzo all'estremità, lo ficcarono dentro il suo occhio; io, sollevatomi, lo giravo di sopra, come quando uno fora un legno di nave col trapano, che altri di sotto muovono con una cinghia tenendola dalle due parti, e sempre, senza sosta, essa avanzava; così giravamo nell'occhio il palo infuocato, reggendolo, ed intorno alla punta calda il sangue scorreva. Tutte le palpebre e le sopracciglia gli riarse la vampa, quando il bulbo bruciò:le radici gli sfrigolavano al fuoco. Come quando un fabbro immerge una grande scure o un'ascia nell'acqua fredda con acuto stridio per temprarla - ed è questa la forza del ferro - così sfrigolava il suo occhio attorno al palo d'ulivo. Lanciò un grande urlo pauroso: rimbombò intorno alla roccia. Noi atterriti scappammo. Dall'occhio si svelse il palo, sporco di molto sangue. Lo scagliò con le mani lontano da se, smaniando: poi chiamò a gran voce i Ciclopi, che lì intorno in spelonche abitavano, per le cime ventose. Quelli, udendo il suo grido, arrivarono chi di qua chi di là e, fermatisi presso il suo antro, chiedevano cosa lo molestasse: "Perché, Polifemo, sei così afflitto e hai gridato così nella notte divina, e ci fai senza sonno? Forse un mortale porta via le tue greggi, e non vuoi? Forse qualcuno ti uccide con l'inganno e con la forza?". Ad essi il forte Polifemo rispose dall'antro: Nessuno, amici mi uccide con l'inganno, non con la forza". Ed essi rispondendo dissero alate parole:"Se dunque Nessuno ti fa violenza e sei solo, non puoi certo evitare il morbo del grande Zeus: allora tu prega tuo padre, Posidone signore". Dicevano così, e rise il mio cuore, perché il nome mio e l'astuzia perfetta l'aveva ingannato. Il Ciclope gemendo e penando per il dolore, brancolando a tentoni, tolse dall'ingresso la pietra, sedette davanti all'entrata tenendo le mani, semmai cogliesse tra le pecore qualcuno che usciva: forse sperava che io fossi così sciocco nell'animo. Invece io meditavo quale fosse il piano migliore, semmai trovassi uno scampo dalla morte ai compagni e a me stesso; tessevo ogni inganno ed astuzia, come si fa per la vita: ci incalzava una grande sciagura. E il piano migliore mi parve nell'animo questo: c'erano alcuni montoni ben nutriti e villosi, belli grandi, ricoperti di lana violetta. Li legai in silenzio con i vimini torti, sui quali dormiva l'enorme Ciclope maligno, afferrandone tre: quello in mezzo portava un compagno, gli altri due avanzavano ai lati coprendo i compagni. Tre montoni portavano ogni uomo io invece - c'era infatti un montone più grosso di tutte le bestie - afferratolo al dorso, giacqui sotto il suo ventre villoso piegato: giratomi, mi reggevo con le mani al vello divino, senza posa con cuore paziente. E così, sospirando, aspettammo la chiara aurora. Quando mattutina apparve aurora dalle rosee dita, allora egli spinse al pascolo le mandrie dei maschi; le femmine, per i recinti, non munte belavano: le loro poppe scoppiavano, infatti. Tormentato da fieri dolori, il padrone tastava le groppe di tutte le bestie, ferme diritte: lo sciocco non l'aveva capito, che gli uomini erano stretti al petto delle bestie lanose. Ultimo uscì il montone del gregge, gravato dalla lana e da me coi miei fitti pensieri. E il forte Polifemo palpandolo disse: "Caro montone, perché vieni per la spelonca così, per ultimo? Prima non sei mai venuto dopo le pecore, ma primissimo correvi a brucare i teneri fiori dell'erba, a gran salti; per primo raggiungevi il corso dei fiumi; per primo bramavi tornare alle stalle, la sera; e ora invece sei ultimo. Forse tu piangi l'occhio del tuo padrone? Lo ha accecato un vigliacco, coi suoi vili compagni, dopo avermi vinto la mente col vino: Nessuno, che penso non è ancora sfuggito alla morte. Oh se potessi anche tu pensare e parlare, per dirmi dove lui fugge dal mio furore. A lui, sbattuto qua e là per la grotta, si spaccherebbe il cervello per terra e il mio cuore avrebbe sollievo dai mali che questo Nessuno da nulla mi diede ". Detto così, spinse fuori il montone. Giunti poco lontano dall'antro e dallo steccato, mi staccai dal montone, per primo, e sciolsi i compagni. Spingemmo in fretta le greggi dal passo diritto, pingui di grasso, più volte volgendoci, finché arrivammo alla nave. Al nostro apparire i cari compagni gioirono, perché eravamo sfuggiti alla morte, ma piansero gli altri. Io non lasciai che piangessero, coi sopraccigli dissuasi ciascuno, ma ordinai di gettare rapidamente le molte greggi villose dentro la nave e navigare sull'acqua salata. Essi si imbarcarono subito e presero posto agli scalmi e sedendo in fila battevano l'acqua canuta con i remi. Ma appena distai quando basta per sentire chi grida, allora con parole taglienti dissi al Ciclope:"Ciclope, non certo i compagni di un uomo vigliacco avresti mangiato nella cava spelonca con dura violenza. E i misfatti dovevano ricadere proprio su di te, sciagurato, che non hai esitato a mangiare gli ospiti nella tua casa: perciò ti ha punito Zeus e gli altri dei". Dissi così, e lui si adirò nel cuore di più, divelse e scagliò la cima di una grande montagna: la fece cadere oltre la nave dalla prora turchina; alla caduta del masso il mare si sollevò: l'onda rifluendo sospinse la nave a terra, il riflusso dal largo, e la strinse contro la costa. Io però, afferrata una lunghissima pertica, la spinsi di fianco e ordinai ai compagni, incitandoli, di gettarsi sui remi, per scampare al pericolo, con cenni del capo: ed essi remavano, piegandosi avanti. Quando avanzando sul mare distammo il doppio allora gridai al Ciclope; intorno i compagni chi di qua chi di là mi frenavano con dolci parole:"Sciagurato, perché vuoi irritare un selvaggio? Che anche ora, lanciando il masso nel mare, ha riso spinto verso terra la nave, e credevamo di lasciarci la vita. Se sentiva fiatare o parlare qualcuno, ci fracassava le teste e i legni di bordo, colpendoci con una ruvida roccia perché tira da lontano". Così dicevano, ma non convinsero il mio cuore magnanimo, e di nuovo gli dissi con animo irritato:"Ciclope, se qualche uomo mortale ti chiede dello sconcio accecamento dell'occhio, digli che ad accecarti fu Odisseo, distruttore di rocche il figlio di Laerte che abita ad Itaca". Dissi così ed egli mi rispose gemendo: "Ahimè, una profezia molto antica si avvera. C'era qui un indovino valente e grande, Telemo Eurimide, che eccelleva nell'arte profetica e profetando invecchiò tra i Ciclopi: egli mi disse che un giorno tutto questo si sarebbe compiuto, d'essere privato della vista per mano di Odisseo. Ma io o sempre aspettato che arrivasse qui un uomo grande e bello, vestito di grande vigore: invece uno che è piccolo, da nulla è debole, ora mi ha orbato nell'occhio, dopo avermi vinto con il vino. Ma vieni, Odisseo, che ti offro i doni ospitali e induca lo Scuotiterra glorioso a scortarti: di lui sono figlio, padre mio dice d'essere. Egli mi guarirà, se lo vuole, lui e nessun altro, ne degli dei beati ne degli uomini mortali". Disse così, ed io rispondendo gli dissi:"Magari avessi potuto privarti dall'anima e della vita e scortarti nella casa di Ade, come no guarirà il tuo occhio neppure lo Scuotiterra". Dissi così ed egli a Posidone signore elevò una preghiera, tenendo le mani al cielo stellato: "Ascolta, Posidone che percorri la terra, dai capelli turchini, se sono tuo veramente, padre mio dice d'essere, che a casa non giunga Odisseo distruttore di rocche, figlio di Laerte che abita ad Itaca. Ma se è suo destino vedere i suoi cari e tornare nella casa ben costruita e nella terra dei padri, tardi vi giunga e male, perduti tutti i compagni sopra una nave straniera, e a casa trovi dolori". Disse così pregando, lo udì il dio dai capelli turchini. Egli sollevato di nuovo un macigno molto più grande l'avventò roteando, gli impresse un impeto immenso: cadde dietro la nave dalla prora turchina , poco lontano, e quasi colpì l' estremità del timone. Alla caduta del masso il mare si sollevò, l'onda sospinse la nave verso la costa. Quando arrivammo nell'isola, dove aspettavamo insieme le altri navi ben costruite - i compagni sedevano intorno gemendo, sempre attendendoci - spingemmo sulla sabbia la nave, appena arrivati, e noi stessi sbarcammo sulla riva del mare. Tratte le greggi del ciclope dalla nave ben cava, le dividemmo perché nessuno partisse privato del giusto. I compagni dai saldi schinieri, divise le bestie, assegnarono il montone a me solo a parte: immolandolo a Zeus Cronide dalle nuvole cupe che di tutti è signore, ne bruciai sulla riva i cosci. Ma non accettò il sacrificio: meditava come potessero perdersi tutte le navi ben costruite e i miei fedeli compagni. Così tutto il giorno sedemmo fino al tramonto consumando carni abbondanti e dolce vino: appena il sole calò e sopraggiunse la tenebra, ci sdraiammo sulla riva del mare. Quando mattutina apparve aurora dalle rosee dita, allora comandai ai compagni, incitandoli, di imbarcarsi anche loro e di sciogliere a poppa le gomene. Subito essi salirono e presero posto agli scalmi e sedendo in fila battevano l'acqua canuta con i remi. Navigammo oltre da lì, con il cuore angosciato sollevati dalla morte, perduti i cari compagni.

©Grasso Giovanni e Antonio Guarnera 2000